Le vene vengono comunemente chiamate “vene varicose” quando si dilatano e diventano visibili, spesso alterando il piano cutaneo. Queste sono, solitamente, l’espressione di quello che è chiamato “reflusso venoso“.
Quando le valvole presenti all’interno dei “tubi” che riportano il sangue dalla periferia verso il cuore e che prevengono che il sangue “ricada giù” non funzionano più correttamente, questo causa un ristagno di sangue nelle vene più superficiali, che ingrossandosi diventano visibili.
La diagnosi di insufficienza venosa o “reflusso venoso” (di cui le vene varicose possono essere una espressione) deve necessariamente prevedere un’accurata indagine ecografica e flussimetrica (Ecocolordoppler).
Questo esame, non invasivo, permette di visualizzare il sistema venoso superficiale e profondo, valutando quali vene sono coinvolte nel processo degenerativo, e consente di formulare non solo una diagnosi ma anche proporre eventualmente una strategia operatoria.
Le linee guida internazionali, ormai recepite anche dalle Società Scientifiche italiane, ribadiscono che nessuno dovrebbe essere avviato ad alcun tipo di trattamento senza prima aver eseguito un ecocolordoppler. Inoltre, anche nel caso dei semplici “capillari”, non è possibile escludere un coinvolgimento delle venule o delle vene superficiali sottostanti, seppur non ancora visibili attraverso la cute, con la semplice visita clinica.
Quali sono i primi sintomi delle vene varicose?
Da anni, esiste una classificazione che ci aiuta a descrivere lo stadio raggiunto dalla malattia venosa, la classificazione CEAP. Tralasciando i dettagli tecnici di questa classificazione, la malattia venosa cronica riconosce 6 stadi clinici, identificati dalla lettera C:
- – C1: Teleangiectasie
- – C2: Vene varicose
- – C3: Edema
- – C4: Pigmentazione cutanea
- – C5: Ulcere guarite o atrofia bianca
- – C6: Ulcere venose in fase attiva
Per quanto riguarda i sintomi, questi sono solitamente riferiti come:
- – Eccessiva stanchezza delle gambe
- – Senso di pesantezza
- – Formicolii
- – Pizzicore
- – Prurito
- – Crampi notturni
- – Eczema
Le “Vene Varicose” quindi altro non sono che una delle possibili espressioni della patologia sottostante, che abbiamo detto essere il “reflusso venoso”. Questa condizione si manifesta in molti modi, e non sempre i sintomi riferiti compaiono in “ordine di gravità”. Le condizioni che devono far sospettare un coinvolgimento venoso vanno dalle più “benigne” teleangiectasie (i “capillari”) fino all’espressione più temibile che è rappresentata dalle ulcere venose.
Come si curano le vene varicose?
Quando si parla di “cura delle vene varicose“, ci si riferisce solitamente alla patologia della vena safena. Esistono diversi trattamenti per eliminare il reflusso safenico. Storicamente, lo stripping è stato l’intervento praticato per “sfilare” la safena. Questo intervento, seppure praticato ancora (purtroppo!) da moltissimi chirurghi, ha dimostrato di avere un tasso di complicanze immediate e di recidive (cioè quando “le vene ritornano” dopo alcuni anni) molto alto.
In alcuni paesi, questo intervento non compare neppure più nell’elenco delle possibilità terapeutiche accettate. Da anni, ormai, si pratica quella che è chiamata “ablazione termica” della safena. Il principio è quello di “bruciare” la safena (mediante laser o radiofrequenza) senza sfilarla. Questo riduce notevolmente “l’impatto chirurgico” che il paziente sperimenta, permettendo addirittura di eseguire l’intervento in anestesia locale e a livello ambulatoriale.
In altre parole, il trattamento avviene con le stesse modalità con cui si pratica un’otturazione dal dentista. Il paziente arriva in ambulatorio (un ambulatorio opportunamente attrezzato, si intende), riceve il trattamento, ed è quindi libero di andare a casa camminando immediatamente con le proprie gambe.
L’intervento di ablazione termica avviene inserendo uno strumento (laser o radiofrequenza) nella vena malata attraverso un foro nella cute. Lo strumento è simile a una sottile cannuccia, e ha le dimensioni del refill di una penna Bic.
Il foro è praticato con lo stesso ago con cui si fanno i prelievi venosi. Sotto guida ecografica, lo strumento viene avanzato fino al punto appropriato, solitamente a livello dell’inguine, e l’anestesia locale viene iniettata tutto intorno alla vena da trattare, sempre sotto controllo ecografico.
A questo punto, si procede all’ablazione vera e propria, accendendo lo strumento che brucerà la vena. I pazienti solitamente non sentono nulla, ma vengono invitati a fare presente all’operatore qualunque sensazione di “fastidio” o di “bruciore” che dovessero avvertire.
L’operatore è quindi in grado di fermarsi e aggiungere altro anestetico. Tutto è fatto e studiato in modo che l’esperienza del paziente sia di completo comfort. Questa procedura è stata messa a punto in modo da minimizzare i rischi che tradizionalmente erano legati agli interventi di stripping eseguiti in anestesia spinale o addirittura generale.
Con l’anestesia locale, infatti, il paziente è in grado di dire immediatamente se sente dolore, evitando così lesioni ai nervi che spesso si accompagnano alle vene (soprattutto nel polpaccio). Inoltre, questo tipo di anestesia (unitamente al minor traumatismo chirurgico) permette al paziente di camminare immediatamente, riducendo al minimo i rischi di trombosi venosa profonda associati all’allettamento prolungato e all’immobilità dell’arto operato.
Allo stesso tempo dell’ablazione della safena, si praticano le “flebectomie“. Questa parola indica che le vene varicose più superficiali vengono “sfilate” attraverso piccole incisioni (un paio di millimetri) che vengono solitamente chiuse con dei semplici cerotti, senza punti di sutura. Anche questa procedura è molto ben tollerata e viene eseguita sempre in anestesia locale. Al termine dell’intervento, viene applicato un bendaggio compressivo e una calza elastica, che il paziente è invitato a portare per alcuni giorni. Solitamente, i pazienti ritornano alle loro attività sociali e lavorative immediatamente.
Esistono altri metodi di affrontare l’insufficienza safenica, in particolare la scleroterapia. Questa tecnica consiste nell’iniettare all’interno della safena una sostanza che ne “uccide” la parete (in forma di liquido o di schiuma, a seconda delle scuole di pensiero) attraverso delle semplici punture cutanee, senza utilizzo di strumenti sofisticati o la necessità di alcuna anestesia.
Alcuni colleghi riportano risultati eccezionali, ma la letteratura internazionale indica un alto tasso di ricanalizzazioni (la safena trattata si riapre) dopo alcuni mesi o anni, rendendo necessario un ulteriore seduta di trattamento.
Anche questa tecnica richiede un adeguato periodo di compressione con bendaggio e calza elastica, e spesso richiede una visita per praticare delle punture della stessa safena trattata per evacuare l’eventuale coagulo che si sia venuto a formare.